Le stelle ruotate al Polo, 2011,
dipinto su tavola serigrafata, 52 elementi in marmo statuario, proiezione luminosa,
cm 290 x 690 x 4,5.
Margherita Stein: Rebel with a cause, Magazzino Italian Art, Cold Spring, NY, 2017.
“Le stelle ruotate al Polo (2011) è una grande installazione a parete, un fondale ligneo dipinto a cerchi concentrici che riunisce una cinquantina di ovoidi in marmo, vivificati e resi vibranti dalla luce di un proiettore sagomante. Sono affioramenti, di isole o di galassie, figurati nel tentativo di riportare il contingente alla sua scaturigine universale, come per trasmettere un’eco del suono delle sfere celesti attraverso l’ascolto di una musica interiore, che non dà risposte decifrabili ma rende ancora possibile la pratica dell’arte.”
Alberto Mugnaini, Marco Bagnoli, in: Flash Art, 31 gennaio 2012.
“MB: […] il gioiello invece, rimaneva zenitale, quale centro del cono processionale.
FFP: Questo è un aspetto interessante.
MB: individuazione di uno spazio radiante, sì. È qualcosa di spostato rispetto a un centro. L’origine del cono della processione poi dove la metti? Il cono della vista contro la sfera della visione. È l’origine del cono? Dovresti andare al centro della Terra.
FFP: Da quello che ho visto nel video, ho capito che c’è una sovrapposizione sia di musica sia di testi. Quale è il collegamento fra musica, testi, la struttura del tuo lavoro ed il Planetario?
MB: È la luce stessa, è il movimento della luce. È un’azione chiamiamola “teatrale”. L’ho chiamata opera scenica perché in realtà il problema era morto con il teatro, con la rappresentazione. Però l’opera d’arte, nel momento in cui tocca degli elementi interni vivi, non è mai rappresentata, è natura stessa. La luce crea un movimento, ma non è un’azione teatrale, è un’azione intrinseca all’opera stessa. Quello è stato un punto delicato da risolvere. Al Planetario siamo perfettamente nel buio, nei primi minuti c’è soltanto una voce, quindi solo buio, e qui già l’occhio deve abituarsi all’oscurità.
Poi appaiono le stelle, il canto delle rane, poi l’illuminazione delle sculture che porta verso il gioiello e la sua ombra proiettata sulla volta. Tutto ciò avviene in una sequenza e non c’è altra possibilità. La sequenza è il suono e il suono è la musica stessa, perché la natura della musica è fatta di suono e dunque di tempo, mentre la scultura, l’arte figurativa, è fatta di spazio… il problema è trovare questa connessione, un rapporto tra lo spazio e il tempo che è anche un rapporto dell’opera con la scena. Mentre la misura “scientifica” dell’arte è già stata tutta spesa nel momento in cui, con Cézanne, il modello naturale è caduto per divenire la natura stessa della visione. Un processo irreversibile verso una non oggettività. Se poi si perde di vista l’uomo naturale, allora, a questo punto, c’è da riconsiderare anche la forma della semplicità.”
Flavio Fusi Pecci, Leonidi, in: Opera scenica di Marco Bagnoli / Rotazione Apparente / 21 minuti al Planetario per lo sciame delle Leonidi, 2012, pp. 41-43.